LA SOLITUDINE DELL'EMIGRANTE

Come altri milioni di emigranti, di ogni epoca, io vissi questo dramma in una terra straniera che molti scrittori abruzzesi hanno così ben descritto nei loro libri. Credo che tutti noi, emigranti e non, abbiamo attraversato periodi, più o meno lunghi, di solitudine. In questo breve racconto voglio parlare dei giorni in cui io la sentii più intensamente di ogni altro periodo della mia vita. Ero arrivato nel Perù il mese di gennaio 1949, con in tasca il mio diploma di perito minerario ed una valigia (veramente di cartone) “piena di speranze”. Avevo subito trovato lavoro in una miniera per l’estrazione dell’oro  ubicata in una località denominata ALPACAY,  nel distretto di Arequipa, quasi ai confini con il Cile, nel cuore delle Ande Peruviane. La miniera era stata aperta per lo  sfruttamento di un filone di pirite aurifera frammista ad altre rocce, fra le quali predominavano quarzo e olivina. Erano state costruite tre gallerie a mezza costa, collegate tra loro da un pozzo inclinato, attraverso le quali veniva estratto tutto il materiale scavato nel filone. All’interno della montagna c’era un labirinto di gallerie impressionante dove lavoravano continuamente migliaia di operai denutriti e mal pagati. Dalla meseta a  circa 4000 metri di altitudine, dove erano ubicati gli uffici principali della società, la superficie del terreno degradava ripidamente intersecando le tre gallerie a mezza costa, completando la sua discesa in un profondo canyon dove scorreva il Rio de Ocuna. Il panorama era da mozzafiato perché questa landa naturale, sprovvista di vegetazione, si perdeva all'orizzonte tra valloni e montagne sconosciute. Quando il tempo era cattivo, il cielo diventava plumbeo e le raffiche di vento erano delle vere scudisciate sul volto. Io svolgevo le mansioni di aiutante del capo servizio nel cantiere Cerro Rico  ubicato a circa 2800 m. di altitudine. Passò il primo mese e presi il primo stipendio di seicento soles, equivalenti a ventiquattromila lire e ben poco mi rimase dopo aver detratto le spese e le ritenute.  La crisi doveva ancora sopraggiungere. Entravo in miniera tutti i giorni, il lavoro era interessante e questo contribuiva ad allontanare i pensieri che si agitavano sempre più vorticosamente dentro il mio animo. Molte notizie apprese a scuola non trovavano  riscontro nella realtà. Le perforazioni avvenivano senza l’utilizzo dell’acqua,  cosicché gli operai apparivano confusi tra la polvere. La maggior parte di loro era debilitata  per cui essi si tenevano su masticando continuamente foglie di coca che si vendevano sfuse entro sacchi nei negozi del cantiere. Non venivano impiegate macchine perforatrici avanzate, ma soltanto semplici martelli perforatori. Il carico dei materiali era fatto esclusivamente a mano, i sistemi di ventilazione e di protezione erano scadenti: in una parola  era un inferno! Rivedo il grande piazzale davanti all’imbocco della galleria di Cerro Rico dove veniva scaricato il materiale proveniente dalle viscere della terra. La visione ritorna nitida nella mia mente come mi apparve durante i mesi che rimasi in miniera, al principio fiducioso e successivamente, con il passare dei giorni, sempre più preda di un profondo scoramento. I vagonetti decauville scaricavano in continuazione il loro carico ai bordi di una lunga fila di tramogge dove decine e decine di donne selezionavano a mano il materiale sterile da quello utile facendolo scivolare nelle rispettive tramogge. Molte donne portavano sulle spalle i loro bambini e indossavano il caratteristico abbigliamento della società india delle Ande. Quando c’era il sole , i colori sgargianti dei loro vestiti, combinati con i continui movimenti che erano costrette a fare, facevano apparire la scena come quella di una catena di coriandoli mossa dal vento. Passarono i mesi di febbraio e di marzo senza novità di rilievo e le mie preoccupazioni  aumentarono di pari passo con il tempo. Alternavo giorni di tranquillità  con giorni di profonda malinconia; la nostalgia dei familiari, dei parenti, dei compagni di scuola, del paese nativo, diventava sempre più forte. Ero partito pieno di speranze,  con lo scopo principale di aiutare economicamente i miei familiari rimasti in Italia  ma, con quello che guadagnavo, questo era diventato impossibile. Quando entravo in miniera sovente mi nascondevo nelle gallerie abbandonate e, nel buio assoluto, sdraiato sulla nuda terra, pensavo con struggente malinconia a tutto quello che avevo lasciato in Italia. Nel 1949 la Pasqua arrivò il 18 di aprile e, in quei giorni di festa, la mia angoscia raggiunse il culmine della sopportazione. Durante la settimana santa molti impiegati andarono a passare le feste dalle loro famiglie, qualcuno a Lima, altri ad Arequipa ed io rimasi da solo nel cantiere di Cerro Rico. Fu così che l’idea di andare in Venezuela si fece sempre più strada dentro di me, tanto da non farne più mistero nemmeno con il mio diretto superiore. Le ultime notti passate alla casa di Cerro Rico erano interminabili, con gli occhi sbarrati nel buio nel mio cervello c’era posto per un solo pensiero: andare via. Il sabato santo scrissi su un foglio di carta degli appunti con lo scopo di conservarlo come ricordo di quella Pasqua così triste. Questo foglio, logoro e spiegazzato per i continui trasferimenti da una custodia all’altra,  durante tutti gli anni che rimasi all’estero, è una testimonianza di come vissi effettivamente quei giorni. Pasqua 1949: Sono uscito da poco dalla mia piccola casa e, seduto su una pietra al ciglio del grande burrone che si perde nella valle di Choca, ricordo i giorni della mia fanciullezza. Tutt’intorno è silenzio assoluto, non si sentono i rintocchi a festa delle campane che annunciano al mondo che Cristo è risorto. Non si ode  nell’aria il cinguettio delle rondini e non si sente il profumo dei mandorli e dei peschi in fiore che annunciano l’arrivo della primavera. Non si ode nemmeno il mormorio delle torbide acque che scorrono sul fondo dei questa interminabile valle. Tra le nuvole ogni tanto appare un languido sole che illumina queste brulle montagne, spargendo intorno un’atmosfera di grigio e di freddo. Volgendo lo sguardo a ponente, nell’orizzonte sconfinato, si vedono solo montagne a perdita d’occhio. Il piazzale davanti la galleria Cerro Rico è deserto  ed i vagonetti decauville  sembrano tanti mostri  pronti ad aggredire la preda. Nel villaggio, fuori qualche casa, si vedono le donne che lavano i panni. Un piccolo indio  sta scendendo lungo il ripido e tortuoso sentiero che porta nella  valle e soltanto a sera risalirà con il suo fascio di erba sulle spalle. Sono solo con me stesso preda di una malinconia profonda, vorrei potermi  sfogare con qualcuno ma non ho nessuno vicino, da tre mesi  non parlo italiano. Questa settimana non è arrivata la posta, anche la settimana scorsa non arrivò. E’ questa una ragione di grande tristezza per me: non ho notizie dai miei cari, non dei miei amici, le persone a cui ho scritto non mi rispondono, mi pare che nessuno pensi a me, mentre io penso a tutti. Con vigile memoria rivedo tutte le note fisionomie, tutti i casi del passato, col pensiero vivo insieme ai miei genitori, alla nonna, al fratello, alle sorelle ed ai parenti tutti. Questa è la mia prima Pasqua in terra straniera che ricorderò finché avrò vita.

(Pescara, 1° marzo 2009 – Luigi Marcotullio)