DON  VINCENZO  D’AMICO

 

Nei lunghi e freddi inverni “fontanari”, quando ero ancora bambino, a riscaldare il mio corpo e il mio cuore, oltre al fuoco, c’erano i racconti e le fiabe che mia madre mi narrava. Aspettavo con ansia il tramonto del sole che portava via le ombre della vita e riuniva finalmente la mia famiglia; come ogni sera, dopo cena, il magico gioco delle novelle o delle reali vicende s’impossessava della mia mente che, pienamente plagiata, rimandava più che poteva l’appuntamento col mondo ovattato dei sogni. Da questa mattina presto ho mia madre nei pensieri; i ricordi fioccano nella mia testa e la viva fiamma del camino illuminando il passato si sofferma insistente su una storia che mi colpì in modo particolare. L’evento che mi accingo a raccontare riguarda un prete, Don Vincenzo D’Amico di Rocca di Mezzo; questo curato ebbe nel nostro paesello il primato del mandato pastorale più lungo che si ricordi (1907- 1949), ben quarantadue anni. Prima di lui c’era stato un parroco di Aragno, Don Lorenzo Barone (1876 – 1907), grazie al quale Attilio Rosa conobbe la sua futura sposa, Barone Maria Cristina; “Chicchina” come venne poi da tutti chiamata, era sua nipote e veniva spesso alla “Fonte” a far visita allo zio, il destino volle che il giovane avesse la dimora proprio di fronte alla canonica e così dai primi sguardi fugaci all’amore il passo fu breve. Quante volte, mentre recapitavo la corrispondenza ad Aragno, due adorabili vecchietti, suoi parenti, mi raccontavano commossi delle sortite di Attilio!; Barone Fiore e Ludovici Nelina erano marito e moglie e il 2008 se li è portati via a distanza di quindici giorni l’uno dall’altra. Il paese di Aragno arroccato su di una soleggiata collina fu il testimone di quell’idillio, le finestre del borgo si aprivano come per incanto al rumore dei ferri che la cavalla bianca di Attilio Rosa, “Bindella”, emetteva nel percorre le anguste strade per raggiungere l’alloggio della sua morosa. Fonteavignone in quel periodo era un paese felice e affollato, Don Vincenzo lo trovò così al suo arrivo, nonostante il lavoro fatiscente di quei luoghi montuosi con i soli piccoli appezzamenti di terreno, scomodi, pietrosi e duri da dissodare. La guerra aveva lasciato il segno ma la speranza era più viva che mai ed i giovani senza impiego e col futuro incerto riempivano di sogni e dei pochi averi le loro valigie, affidandosi alla sorte di un destino che  brutalmente li trascinava lontani dai luoghi natii e dalle persone care. I “Fontanari” più coriacei, invece, restavano a coltivare quei preziosi fazzoletti di terra con le unghie e coi denti, vivendo esclusivamente grazie al loro modesto ricavo e all’allevamento degli animali; ogni famiglia infatti possedeva galline, pecore, maiali, mucche, asino o quant’altro occorreva per la sopravvivenza. Il nostro amato borgo con la montagna del “Pago” di fronte e la vallata più in basso occupata dai sempre acerbi vigneti e dal lussureggiante bosco “Faito”, praticamente offriva due soli passaggi percorribili per accompagnare le bestie al pascolo; uno era quello che dalla “Costrizia” (CReSTIZZIA) s’inerpicava su per lo spaccio e l’altro più in piano e agevole che attraversava le “Vasche” e penetrava nella “Tagliata”. Proprio la “Tagliata” fu la causa scatenante che portò alla fine del sodalizio con Don Vincenzo; questo querceto secolare, di proprietà del demanio, (grazie a una delibera del comune di Rocca di Mezzo verso la fine del 1900, tutt’ora in vigore) permetteva ai parroci che risiedevano  a Fonteavignone il taglio della legna per il loro fabbisogno. Chissà cosa avvenne nella mente del sacerdote, da sempre stimato e benvoluto da tutti, purtroppo col tempo cambiò; forse pensò di perderne il privilegio se anche altri “Fontanari” continuavano ad approfittare del suo stesso beneficio senza però averne il permesso, forse … nessuno lo sa, è certo che un dì, in sordina, si recò  al comune e pretese l’ordinanza di divieto di transito su quella proprietà. Dove ora c’è il piazzale della chiesa, Don Vincenzo aveva una stalla con capre, galline e conigli, più giù verso l’abitazione di Lucantonio Federico disponeva d’un opulento orto e al lato opposto, in direzione del forno, c’era invece un pozzo di calce di cui era molto geloso. Nei giorni di martedì, mercoledì e giovedì della settimana santa i giovani del paese, su quel pozzo, dopo averlo bagnato e accresciuto con la creta in modo da ampliare il rumore, vi percuotevano i bastoni rievocando in tal modo il supplizio inferto a Gesù; i fedeli al contrario assistevano alla S. Messa e soltanto il venerdì durante l’ora della morte del Messia procuravano frastuono scuotendo le sedie o emettendo suoni con le mani all’interno della chiesa. Il reverendo, infaticabile lavoratore, capace di svolgere i più svariati mestieri, dal muratore all’ortolano, possedeva tra l’altro un coniglio maschio che sovente prestava  ai suoi fedeli per la riproduzione, pretendendo come compenso da ognuno di loro una coppia da ogni nascita. Quando a dicembre si ammazzavano i maiali i pezzi migliori di arrosto erano per lui, come pure salsicce e salami appena lavorati che molte famiglie nonostante le dispense semivuote se ne privavano con piacere. Le Sante Messe celebrate in latino piacevano all’intera comunità, la congrega da lui plasmata era il vanto della “Fonte” e tutte le domeniche prima della funzione religiosa cantava le lodi alla Madonna; il meglio di sé lo palesava però soprattutto ai funerali o alla commemorazione del due novembre, allorché i devoti restavano ammaliati dalle possenti voci che magnificano i sacri canti. Oggi non si usa più ai funerali “Fontanari” ma solo pochi anni orsono  quando c’era un morto, la famiglia del defunto metteva sulla Croce che lo accompagnava nell’ultimo viaggio un tessuto di tela che dopo l’estremo saluto restava alla congrega; lo stesso drappo veniva poi rivenduto per poche lire e quasi sempre ricomperato dalla famiglia dell’estinto. A un lato dell’altare, precisamente verso la statua dell’Assunta c’era un candeliere simile a un palo con due pendenze come la maggior parte dei tetti, in entrambi i lati esponeva delle candele che venivano accese solamente in occasione di dette solennità e  spente una alla volta al termine di ogni salmo. Fra i cantori più assidui e meritevoli, ora tutti scomparsi, figuravano: Lucantonio Agapito, Cesidio, Natale, D’Ascenzo Guido, Pasquale, Emilio, Enolo, Domenico, Rosa Pasquale, Amato ecc. Tra questi, Domenico (gl’AVVOCATe) svolgeva anche il compito di sacrestano e durante le processioni lo si poteva ammirare spesso con lo stendardo alto sei metri, retto dai soli denti. C’era molto dialogo e rispetto tra il religioso e i suoi parrocchiani, ed è facile da ciò intuire come il paese si sentì offeso dal suo mutamento e da quella drastica decisione finale che recepì come un tradimento. Fonteavignone dopo il decreto del comune che proibiva il passaggio per la “Tagliata”, divenne una fortezza militare  con carabinieri e forestale a cavallo sempre vigili e presenti a far rispettare l’ordine, ma ciò non bastò egualmente ad evitare che i “Fontanari” da sempre pacifici e tranquilli insorgessero contro il loro pastore. Le più battagliere furono le donne che non rischiavano l’arresto come purtroppo avvenne per Lucantonio Sabatino e Silvio con D’Ascenzo Roberto, denunciati dal curato per aver fomentato la piazza a disertare la Messa; i tre giovani mentre venivano portati in caserma furono raggiunti all’altezza della ’ncimata da alcune donne fontanare che ingaggiarono con i carabinieri un parapiglia nel quale Lina Rosa venne ferita al labbro da un moschetto; poiché le fuoriusciva sangue in abbondanza la giovane minacciò di denunciare i militi i quali, inquieti,  dopo un breve confronto decisero di rilasciare per convenienza anche i tre fermati. Non mancarono purtroppo in quel periodo altri episodi spiacevoli ed eclatanti come quello di Lucantonio Alessandro, (nonno di Sabatino), che un giorno, (come d’altronde facevano tanti altri paesani), caricò della legna secca della “Tagliata” sul cavallo e suo malgrado fu costretto a depositarla fuori della canonica, dato che il ministro di Dio nascosto dietro una pianta ne aveva spiato tutta l’operazione. Alla “Fonte” i meno giovani ricordano tutti uno sgradevole episodio di cui Don Vincenzo si rese tristemente protagonista che ha dell’incredibile; una famiglia che aveva perduto un proprio caro (per rispetto si omettono le generalità) e si trovò in quel momento nell’impossibilità di saldare il funerale si vide richiedere dal “pastore” come compenso una capretta appena nata. Un avvenimento che magari farà anche sorridere capitò invece a Lucantonio Irene e D’Ascenzo Maddalena (di Rosaria); un giorno che il religioso era andato in città, le due donne si recarono alla “Tagliata” per raccogliere la ghianda (ianna) per i maiali ma destino volle che l’ecclesiastico al ritorno le scorgesse, le spiò da dietro la chiesa fino all’uscita del campetto da tennis, si nascose allora vicino la casa di Rosa Ottavio e sorprendendole pretese da loro l’intera refurtiva. Altre volte invece il problema riguardò D’Ascenzo Felice che abitava proprio ai confini del querceto, il suo asino scappava spesso per raggiungere il fresco delle piante ma puntualmente le forze dell’ordine lo riportavano indietro minacciando il proprietario di contravvenzione; emblematica la dichiarazione di  FeLICITTe” dopo le frequenti traversie: “PORTe GL’ASeNe ALLA FIERA, MA Pe COMe TE’ LA CONDOTTA MACCHIATA, NISCIUNe Se GLIU COMPRA”. In seguito a tali avvenimenti, come è facilmente prevedibile, gli animi si riscaldarono sempre di più e in una domenica dei primi mesi del 1949, all’uscita del celebrante dalla S. Messa, disertata di proposito dai fedeli, ci fu la fatidica ribellione. Davanti a tutti le donne e i bambini a inveire, mentre gli uomini molto numerosi, presenziavano dal vicolo della casa di Lucantonio Gregorio proprio di fronte alla chiesa, senza intervenire; i carabinieri vigilavano su tutto ciò e rispettando alla lettera gli ordini ricevuti trascrivevano i nomi di tutte le donne presenti per poi poterle denunciare. Don Vincenzo, tra due ali di folla che gridava e imprecava cercò di raggiungere celermente la sua abitazione ma, davanti ad essa trovò Rosa Angela (Angelina) appoggiata al muro che scostandosi esclamò: ”CU Ce SI FATTe DON VINCE’, NU NeN Ce MERITAVAMe QUESTe”!!! In quella fatidica domenica che resterà nella storia, l’assessore della “Fonte” era D’Ascenzo Emilio (MeLIUCCIe), che proprio quel giorno aveva come ospiti a casa sua il sindaco Scoccia Concezio Alceo e altri due assessori scesi appositamente dalla “Rocca” per trovare una via d’uscita tra le parti. La moglie di Emilio, Di Giovanni Rosa (Rusina), non era andata in chiesa quella mattina in quanto occupata a preparare il pranzo ai “Rocchiggiani”, ma nonostante ciò anche il suo nome finì nell’elenco delle sobillatrici e denunciata come tutte. In seguito a tale insurrezione, Don Vincenzo D’Amico fu immediatamente rimosso dall’incarico e trasferito con urgenza a Vigliano, mentre Fonteavignone rimase senza un padre spirituale per lungo tempo e poté beneficiare delle funzioni religiose solo grazie a Don Giovanni Marinangeli che scendeva di proposito da Rocca di Cambio. Don Vincenzo dopo una vita irreprensibile, stimato e riverito da tutti, fuggì di notte come un ladro; le nipoti da Rocca di Mezzo nei giorni successivi, provvidero coi cavalli a portare via tutte le cose da quell’amata dimora, resa decorosa e accogliente dallo zio nel lungo corso del suo incarico sacerdotale. Nei primi anni cinquanta già era iniziato l’espatrio per le parti più disparate del mondo, tra le numerose persone in procinto di partire c’erano anche D’Ascenzo Concetta e la cognata Rosa Lina per l’Australia, però in seguito alla denuncia di Don Vincenzo non potevano lasciare l’Italia poiché il visto veniva loro negato. L’agenzia di viaggio “Genitti” alla quale si rivolsero le due donne per il biglietto aereo si offrì di risolvere l’intera situazione, così dopo tanto intercedere tra le parti fu finalmente fissato il giorno con una suprema corte nella città dell’Aquila. Era il gennaio del 1953 quando una quarantina donne “Fontanare”, in fila indiana, dopo un’estenuante marcia di oltre tre chilometri nella neve alta, raggiunsero L’Aia dei Frati (la Rifrata), dove era posta la  fermata della linea Avezzano-l’Aquila della società “Pacilli”; in quel memorabile giorno, tra di loro c’era anche Gizzi Maria (Marielena), la quale inavvertitamente uscendo dalla traccia rimase quasi sepolta dal manto nevoso, le compagne guidate dalla sua voce che gridava: ”AIUTETeMe”, accorsero prontamente, evitando una tragedia. Nell’Aia dei Frati , territorio della “Fonte”, i nostri antenati avevano costruito una casetta in pietra col tetto In legno ricoperto dalla terra sulla quale era nata l’erba che crescendo la mimetizzava con il terreno circostante, questo rifugio permise alle donne di cambiare le scarpe bagnate e rinfrescarsi prima di salire sulla corriera per raggiungere il capoluogo; l’estenuante viaggio avveniva ogni qualvolta gli abitanti della “Fonte” avevano necessità di recarsi ad Aquila e questo perché in quegli anni, il nostro amato borgo, era collegato con la sola Terranera, tramite un’unica strada brecciosa e molto stretta. Una volta giunte in città , il gruppo finalmente rivide Don Vincenzo; il tempo impietoso trascorso e il martellante ricordo del passato lo avevano duramente segnato, ad occhi bassi sfilò tra loro per rendere la sua deposizione al giudice, con passo stanco e rassegnato. Gli animi nel frattempo si erano placati e il buon senso prevalse su quella brutta vicenda; Don Vincenzo in quell’occasione ritirò la denuncia e uscì definitivamente dalla vita e dal cuore dei “Fontanari”. Le nipoti, in un secondo tempo, fecero sapere che se la richiesta fosse stata indirizzata direttamente allo zio, questi non si sarebbe opposto, ma Concetta e Lina non potevano minimamente immaginare che il signor Genitti si sarebbe servito di un modo così forte ed eclatante per raggiungere lo scopo. Il 1949 era quasi giunto alla fine quando finalmente alla “Fonte” arrivò il nuovo parroco, Don Giuseppe Mastracco (1949 – 1952), il quale innamorato della S. Messa cantata, insegnò al coro e all’intero paese tante nuove canzoni religiose conquistando in brevissimo tempo la fiducia e l’affetto del popolo “Fontanaro”; rinvigorì  con le sue più ampie vedute l’attività delle “Circoline”, tutte vestite di bianco, le quali oltre alle prove canore dovevano anche sopportare i scherzi della perpetua “Nunzietta” che si anneriva di proposito le mani con le padelle per imbrattar loro la faccia … ma questa è un’altra storia.

(Pasqualino D’Ascenzo)